Faccio video, dunque sono

Se fotografiamo i cannelloni che abbiamo sotto al naso, per poterli apparecchiare su Facebook ancora fumanti (e pazienza se dovremo mangiarli più freddi nel caso in cui si debba uscire dal ristorante per catturare il segnale 3G), figurarsi se non filmiamo Vasco Rossi che canta “Vita spericolata” proprio davanti a noi o Bruce Springsteen o Paul Mc Cartney o chiunque si metta a tiro di telefonino. Keith Jarrett no, e tanto peggio per lui se l’altra sera a «Umbria Jazz» ha spento la luce per non sentirsi carne da smartphone. Video ergo sum.
Oggi va così. Perfino Mario Monti, l’avete visto, l’anno scorso da fresco premier s’era messo a riprendere col suo cellulare il carosello dei carabinieri a cavallo alla commemorazione della battaglia di Pastrengo del 1848. E ancora era molto lontano il giorno in cui gli avrebbero appioppato un cucciolo in braccio per filmare la faccia che faceva lui, in diretta tv.
FOTO CORBIS
Se non mettiamo un filtro elettronico tra noi e quello che vediamo, un terzo occhio che affidi il vissuto a una memoria artificiale, è come se non avessimo visto e vissuto niente. E non è solo una deriva da nativi digitali (come dimostra l’esempio di Monti), perché infatti al concerto buio di Jarrett mica c’erano i teenagers di Gangnam style. E’ la morte certificata dell’emozione in diretta: pagare un biglietto, spesso anche salato, per vedere finalmente dal vivo qualcosa di unico, come i cento metri di Bolt, e poi non vederli ma filmarli, col bel risultato di averli visti peggio che alla tv, preoccupati dell’inquadratura, e di aver archiviato nell’hardisk un inutile inguardabile spezzone di dieci secondi con un puntone nero giamaicano che si muove laggiù sfuocato. Boh. Sarà il bello dell’indiretta. Con tanti saluti a quei neuroni prepensionabili che ci servirebbero per custodire nel tempo, seppiare, rivivere, trasformare e mitizzare l’attimo fuggente: qua non ci deve più sfuggire nulla, altroché. Il granello non speri più di diventareperla nell’ostrica del nostro cervello: si accontenti di essere un post o un tweet nell’oceano social.
«Siamo protesi» sorride il sociologo Vanni Codeluppi: «Nonsi fruisce più dell’esperienza attraverso il proprio corpo, ma attraverso uno strumento elettronico di mediazione dell’esperienza stessa. Guardate la gente al ristorante: sono lì eppure anziché socializzare coi commensali mandano sms e chattano socializzando con chi sta altrove. Non si gode più del momento. Non si è lì, come a Woodstock, ma ci si isola e si va inun’altra dimensione per condividere con chi è fuori. Nella società della mediatizzazione conta ciò che è dentro il medium: la vita è sul web, non lì. L’esperienza diretta vale meno di quella mediata. Quello che stai vivendo in diretta vale meno se non è condiviso, amplificato, diffuso, archiviato telematicamente. Sarà assurdo, ma oggi è così». Oggi perché abbiamo lo strumento che ce lo consente, ma l’istinto, in realtà, è primordiale, secondo il filosofo Remo Bodei: «Madame de Staël a inizio Ottocento sosteneva già che al tempo non si potesse ormai più vivere nessuna esperienza che non sembrasse di aver già letto da qualche parte. E oggi ci si sente vivere solo se qualcuno ci sta riprendendo. E’ una specie di tic sociale. Come l’applauso alla bara. Momenti di partecipazione collettiva in cui in realtà non si sta affatto assieme».
Carlo Freccero, massmediologo, autore tv e ormai filosofo dello spettacolo honoris causa, sfodera un neologismo all’uopo: «E’ la facebookizzazione. Faccio tutto solo per poterlo trasmettere alla mia comunità virtuale. Quando da ragazzo andavo sotto il palco dei Clash a scalmanarmi, se qualcuno mi avesse chiesto di fare una ripresa l’avrei mandato a quel paese: do-vevo ballare, viverla. Oggi è più importante il contenitore del contenuto. Non vado per ballare o scalmanarmi ma per riprendere e mettere su Facebook. Non c’è spettacolo o evento in cui non si vedano tutti gli spettatori con un aggeggio in mano a filmare. Siamo diventati un spinotto del nostro telefono. Il fatto che, dopo lo straniamento iniziale da social network, cominciamo a chiederci cosa ci sta capitando, comunque, è già positivo».
Esisterebbe, manco a dirlo,una app studiata apposta. Si chiama Lively e serve a scaricare l’audio registrato direttamente dal mixer subito dopo la fine del concerto (per 4,99 dollari), oppure il video dell’evento già a partire dal giorno dopo (9,99 dollari). Soundhalo, invece, è un’altra app che consente di acquistare il video in formato mp4 di ogni singola canzone subito dopo la sua esecuzione dal vivo: ma non funzioneranno, e non solo perché bisogna pagarle, ma perché non rispondono all’impulso di filmare con la propria mano, tremolante sì ma la propria, e condividere, e dire così al proprio piccolo mondo «io c’ero». Distratto, ma c’ero. Per le registrazioni di qualità audio e video migliore, d’altronde, esistevano già i dvd, se quelloche interessava era solo rivedere o rigustare. «Guy Debord — rammenta Walter Siti, scrittore freschissimo di Premio Strega — nel suo saggio «La società dello spettacolo» del 1967 profetizzava: non si tratta solo dei media che vogliono spettacolarizzare tutto, ma di tutti noi che stiamo diventando spettacolo a noi stessi. Sembrava una tesi avventurosa, specie in un periodo come quello in cui tutti nutrivamo il sogno di prendere in mano la nostra vita, e invece è quanto s’è avverato. Concepiamo noi stessi come attori di uno spettacolo planetario, e se non partecipiamo ci sentiamo esclusi. Ci siamo abituati tanto all’idea che tutto è rappresentazione che se non mi infilo anche io dentro al tramonto che sto vedendo o al concerto che sto ascoltando, allora non l’ho vissuto davvero. La vita non è più riconoscibile come tale se non è rappresentata». E ora che basta solo un iPhone per riuscirci, siamo al delirio collettivo. Resistere non serve a niente, no. Ma chi filma per mestiere, che ne pensa? «Che se ne può solo sorridere — risponde il regista Paolo Virzì — . E’ vero: se non è filmato, non è accaduto. Ma non bisogna essere moralisti: vivere oggi è un allegro disastro ».

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