Imparare dalle sconfitte

SAPER PERDERE
ALESSANDRO BARICCO
Mi scuso, ma partirei da una constatazione personale: se devo guardare alla mia vita, io non sono mai stato tanto bene come quando ho perso. Vorrei chiarire, peraltro, che sono un tipo orrendamente competitivo, mi secca perdere anche a pari e dispari, non mi diverto se non c’è un traguardo visionario da raggiungere, odio la parola “pareggio”, mi riesce più facile qualsiasi cosa se davanti ho un avversario da schiacciare, e in generale mi sveglio al mattino con il discutibile scopo di vincere qualcosa.Insomma, sono uno di quei nevrotici che invece di godersi la vita risultano inclini a interpretarla come un duello. E qui sta il fatto curioso: adoro la sconfitta. Diciamo che la adoro con cautela, senza autolesionismo, e con saggissima misura: la adoro fino a un passo prima di farmi del male, ecco. Ma certo la conosco come un’esperienza a suo modo deliziosa, e sorprendentemente vitale. Non vorrei spingermi troppo in là, ma se cerco di ricordare momenti di cristallina felicità, spesso li riconosco associati a momenti di sconfitta. Non subito, non quando la sconfitta accade: lì ho ben presente lo smarrimento, la percezione un po’ appannata del mondo circostante, la provvisoria perdita di controllo di molte facoltà estremamente utili. Lì è uno shock e basta. Ma per qualche minuto, qualche ora — magari giorni. Poi subentra quell’altro stato d’animo, di delizia pura, di leggerezza incondizionata e di libertà quasi infantile. Una volta mi è accaduto di salire sul palcoscenico di un teatro, al termine della Prima di un mio testo, e di provare la fisica sensazione della sconfitta nel boato di fischi che mi ha seppellito. Non la ricordo come una sensazione propriamente gradevole: non ricordo cosa ho fatto, né come ho trovato la via per tornare dietro le quinte. Ma molto distintamente ricordo una passeggiata un paio di giorni dopo, nel tempo vuoto di una giornata da sconfitto (nessuno ti cerca, in quelle situazioni…), me necamminavo con una leggerezza che non conoscevo da anni, vedendo dettagli che da tempo immemorabile non notavo, immerso in una felicità che solo posso descrivere come una totale assenza di ansia, di urgenza e di rimorsi. Un giorno celeste.
D’altra parte, se posso continuare con annotazioni autobiografiche, mi rendo conto di aver scritto, nei miei libri, soprattutto storie di perdenti, e questo vorrà pur dire qualcosa. Se devo essere più preciso, molti miei personaggi non sono, semplicemente, dei perdenti: sono tipi a cui interessa il duello ma non il risultato, la liturgia e non il miracolo, il cammino e non la meta. Quantopiù sono tipi straordinari (e lo sono quasi sempre), tanto più sembrano disinteressati a trarre profitto dalla propria straordinarietà. Gli piace giocare la partita, ma hanno un’impercettibile ritrosia a vincerla. Evidentemente è il tipo di eroe che mi va di raccontare: geni che scompaiono per finire a pulire cessi da qualche parte, pianisti eccezionali che non scendono mai da una nave, architetti visionari che non approdano a nulla. Perfino nelle storie d’amore — che, com’è noto, sono duelli — i miei personaggi sembrano spesso metter tutto il loro talento nel coniare forme adorabili per amarsi senza riuscire a farlo. Ricordo distintamente di aver iniziato un libro, che poi sarebbe stato quello che mi ha portato al successo, con questo intento preciso: riuscire a scrivere un’immane storia d’amore in cui i due non scambiavano nemmeno una parola.
Insomma, non ne farei una poetica consapevole, ma certo anche nei miei libri si ritrova la stessa aporia che ho dovuto imparare a riconoscere nella mia vita. La descriverei così: quanto più grande è la passione per la competizione, tanto più è irresistibile l’istinto a interpretare la vittoria come qualcosa di inelegante, banale, e alla fine pocoproduttivo.Sono un tipo strano. Ma neanche poi tanto, ho scoperto, il giorno in cui mi è finito in mano un bellissimo saggio di Wolfgang Schivelbusch. Si intitolava La cultura dei vinti. La tesi — a cui devo infinita simpatia e gratitudine — era la seguente: se si sta un attimo attenti alla Storia, quello che si impara è che spesso, all’indomani di grandi scontri militari, a risultare più vitali, forti e veloci a rimettersi in moto sono i popoli sconfitti. Nel dettaglio, il libro studia tre casi: il Sud degli Stati Uniti dopo la Guerra di Secessione, la Francia dopo Sedan e la Germania dopo la sconfitta nella Prima Guerra mondiale. Ma più ancora che quei tre casi (se ne potrebbero trovare altri,peraltro, che dimostrerebbero il contrario), mi affascinò l’intelligenza con cui Schivelbusch entrava in certi schemi mentali, o paesaggi sentimentali, tipici degli sconfitti: trovandovi il germe di una forza, e perfino di una felicità, che i vincitori si sono sempre sognati. Giuro che era piuttosto convincente. Tra le tante argomentazioni, una me la ricordo distintamente, perché dimostra come questa illogica predisposizione dell’umano a sguazzare nella sconfitta abbia radici antichissime, e nobili. Era un’osservazione che in realtà non aveva nulla di nuovo, per me: ma, con una certa cecità, non mi ero mai reso conto della sua portata simbolica. La circostanza, curiosa, è questa: se vogliamo tornare alla madre di tutte le guerre, la guerra di Troia, ecco quel che successe: i vincitori tornarono dalla guerra andando incontro a disgrazie di ogni tipo (in fondo quello a cui andò meglio fu Odisseo, che se la cavò con un ritorno un tantino complicato). In compenso, e per ragioni che francamente appaiono incomprensibili, i troiani compaiono in almeno tre miti di fondazione dall’indubbia importanza: di Enea e del suo ruolo nella fondazione dellaromanità si vociferava già prima di Virgilio; secondo una popolare leggenda del VI secolo, la Francia deve la sua fondazione a Francio, uno dei figli di Priamo; infine, secondo l’autorevole testimonianza di Goffredo di Monmouth, l’Inghilterra deve la sua nascita a Bruto, uno dei nipoti di Enea. Si tratta di miti di fondazione, come ho detto: ma non è curioso che tre potenze mondiali come quelle si siano andate a cercare gli antenati nella stirpe che più di tutte impersona l’esperienza della sconfitta, della disfatta, del disastro?
Insomma, è una cosa che viene da lontano. E probabilmente è una cosa assai più complessa di quanto qualche bonaria annotazione autobiografica possa suggerire. Cosa nasconda non lo so, ma non è nemmeno escluso che lo comprenda a Capri, ascoltando parlare gente da cui sarà deliziosoimparare.
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