TORNIAMO ALLE I D E E D I PLATONE

TORNIAMO ALLE I D E E D I PLATONE
Piacere dei sensi, assenza di problemi, salute dell’anima. Sono le diverse definizioni di felicità dei filosofi antichi: le loro lezioni sono ancora utili
di Pierre Zaoui
Il concetto di felicità è antichissimo, e risale alle origini greco-latine dell’Europa. Tutte le filosofie antiche si sono preoccupate della felicità. E non solo i filosofi ellenistici (con il cinismo, lo stoicismo, l’epicurismo e lo scetticismo, che si presentavano esplicitamente come eudemonologie, ovvero scienze della felicità o dello “spirito buono” — in greco:eudaimonia), ma già la filosofia di Aristotele, secondo la quale, in opposizione al platonismo, la maggior parte degli uomini non ricerca un bene misterioso e inaccesibile bensì, più semplicemente, la felicità. Lo stesso Platone dedicò alla felicità uno dei suoi ultimi dialoghi,Il Filebo, affermando la possibilità di una “ salute dell’anima” ( euessia): giusta misura tra assenza di piacere e piaceri corporali illimitati.
Naturalmente i filosofi non erano mai d’accordo su quale fosse esattamente la natura della felicità e sui mezzi necessari a raggiungerla.

Platone la vedeva come “un di più”, una ciliegina sulla torta di chi ha condotto una vita saggia e retta. Aristotele la riduceva a un gesto. Epicuro la collocava piuttosto tra i sensi ( il piacere) e l’assenza di problemi (atarassia). Gli stoici tra la volontà pura e l’assenza di passioni ( apátheia). Gli scettici in una sospensione del giudizio ( epochè), ecc. Tutti però sembravano concordare sul fatto che la vera felicità — e non i piaceri volgari ed effimeri paragonabili alla botte delle Danaidi — rappresentasse il grande dilemma se non di tutti, quanto meno dei più saggi.

Ecco perché ancora oggi, quando ci si è lasciati alle spalle le tempeste e i trionfi della giovinezza e si decide che è arrivato il momento di essere felici, si ritorna sempre agli Antichi.
Ma tale ritorno ha sempre un che di sbiadito e di nostalgico, perché non può farci dimenticare tutto ciò che la modernità ci ha anche insegnato sui limiti della felicità: che stando a Machiavelli gli uomini forse ricercano non tanto la felicità quanto il potere (se fanno parte dei “grandi”) o la sicurezza (se fanno parte del popolo). Che la felicità dei greci, fatta di limiti, di misura e di equilibrio, non basta più a soddisfarli perché vogliono di più: una gioia infinita e illimitata. In termini spinozisti: non solo l’autocompiacimento degli antichi (acquiesentia in se ipso), ma la gioia attiva e assoluta nell’infinito ( beatitudo). Che non possono sapere con precisione come fare a diventare felici — in termini kantiani, la ricerca del piacere può dipendere solo da un “imperativo ipotetico” e non da un “imperativo categorico”, che pertiene esclusivamente alla vera moralità. O ancora che ricercano sempre, stando a Lacan, qualcosa al di là del principio di piacere: il godimento — esperienza ben più eccitante e per altri versi più pericolosa, che rischia a ogni istante di “bruciarli sino all’essenza”.
La felicità dunque non è altro che un’idea da bambini, e per riprendere le parole di Marx, sia i Greci che i Romani erano “popoli di bambini”.
Tuttavia, si tratta di un buon motivo per non rifarsi continuamente agli antichi? Forse no. A patto però di riconoscere che la felicità moderna è immancabilmente destinata ad apparire un po’ sbiadita rispetto alle promesse di godimenti infiniti della fede e del mercato. Significa riconoscere che l’evanescenza della felicità rappresenta il suo limite costante ma anche l’aspetto più raffinato del suo fascino, come una poesia di Verlaine. E ciò, in ogni caso, ci proteggerà sempre sia dalla felicità falsa e smaccata che dai tristi godimenti dei nuovi cavalieri della fede.
L’autore insegna Filosofia all’Università Paris VII Denis Diderot. Il suo ultimo libro è “ L’arte di essere felici” ( il Saggiatore)
TRADUZIONE DI MARZIA PORTA
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