Viene rimossa la parola fallimento


Nell’aria dei nostri giorni appare a volte, ma è subito rimossa, la paura del fallimento. Le grandi parole come speranza e fiducia, soprattutto nello spazio cristiano, sembrano vietare la possibilità di leggere un evento o la propria vita come un fallimento. Questa mi sembra una malattia spirituale del nostro tempo: abituati a cercare il successo, l’approvazione degli altri, impegnati in compiti “buoni” e conformi al Vangelo, non siamo più capaci di intravedere la possibilità della debolezza e del conseguente fallimento.

Sembra che noi cristiani abbiamo già “le parole pronte” per impedire di constatare il fallimento, e quindi di dirlo, e per poterlo vivere non come un dolore reale, un evento che ci può cogliere nella nostra lunga vita. Eppure ci dichiariamo discepoli di un maestro, un profeta che ha conosciuto come esito della vita il fallimento: il rifiuto della gente, l’abbandono e il tradimento dei suoi discepoli, una morte nella vergogna di chi è giudicato come uomo nocivo al bene dell’umanità, addirittura un indemoniato, un pazzo, un uomo falso.

È sorprendente, di conseguenza, che noi cristiani parliamo facilmente e anche sorridendo di “scandalo della croce” (Gal 5,11), ma senza sentirci intrigati da esso, senza assolutamente pensare che questa potrebbe essere la sorte che ci attende.

Eppure il senso del fallimento non può essere rimosso, e quando si conoscono non superficialmente alcuni grandi testimoni cristiani si deve constatare che il fallimento è stato vissuto drammaticamente nelle loro vite. Perché? Perché in ogni persona è presente, fin nelle sue profondità, prima ancora del peccato, quella che nella tradizione cristiana è detta infirmitas o, con altri sinonimi, fragilitas e miseria.

L’infirmitas, la debolezza, è la condizione della nostra carne, se siamo capaci di leggerla, e più “lo spirito è pronto”, più “la carne è debole” (cf. Mt 26,41; cf. Mc 14,38). La debolezza, l’infirmitas, è in noi radicale: siamo fragili e deboli fino a trovarci nella miseria, siamo inadeguati ad assecondare lo Spirito che in noi geme e sospira (cf. Rm 8,26), e per questa debolezza siamo costretti a cadere, a fallire.

Si può dunque fallire nella vita, anche nella vita che si è voluta cristiana, si può giungere al pensiero di una vita perduta, di una vita che non si è stati capaci di salvare. La vita passata appare come brandelli di carne lacerata non più componibili, non può disponibili per essere l’immagine di una vita. L’unica certezza è che il silenzio che avvolge il fallimento e le cadute, le preserva dal disperdersi nella nientità, dall’avere la sorte di una stella in un buco nero dell’universo. Si nasce e si rinasce, si cade e ci si rialza, si ricomincia sempre: il protagonista non sono io.

A nulla giova la mentalità mondana che pretende ci debba essere sempre e solo successo, riconoscimento, quasi “un’inarrestabile ascesa” (Sal 48,19)! Nella vita c’è anche il fallimento, la caduta, e chi arriva a dire che ha sbagliato tutto va ascoltato in silenzio e non va consolato con parole a buon mercato. Bernardo giungerà ad esclamare: “O beata, desiderabile debolezza (optanda infirmitas), colmata dalla potenza di Cristo, che mi permette non soltanto di essere debole, ma anche di fallire interamente a me stesso, per essere reso stabile dalla potenza del Signore delle potenze. ‘La sua potenza, infatti, si manifesta pienamente nella debolezza’ (2Cor 12,9)”.

Davvero, la forza di Dio trova la sua misura nella misura della nostra debolezza. Ma qui siamo già al di là del fallimento, come Paolo che arriva a dire: “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10). “Naufragium feci, bene navigavi”: non lo si dice nella tempesta, ma quando la tempesta è finita e si è approdati al porto desiderato (cf. Sal 106,30) o, comunque, all’approdo che ci salverà.


Enzo Bianchi

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