Fare la rivoluzione a tutti i costi non serve…

RIVOLUZIONE
Il guardiano dell’ordine che si nasconde in ogni sovversivo
MASSIMO CACCIARI
Rammentare ancora che nel termine «rivoluzione», come in quelli di «rinascita» o di «riforma», suona l’idea di una restauratio magna di un passato, che si immagina poter costituire la solida terra su cui procedere, sembra ormai vano esercizio erudito.

La novitas, il desiderio di res novae e verba nova, al di là di ogni «ripetizione», pervade tutta la nostra cultura. Infuturarsi appare l’imperativo. Pueri aeternianelano tutti a essere. Rivoluzione da tempo suona ormai soltanto come sinonimo di innovazione. Eppure, le cose non stanno così semplicemente. La paura si mescola al desiderio. La ricerca e il dubbio intorno al fondamento del «nuovo» si fanno sempre più assillanti, proprio in rapporto con la irresistibile affermazione della sua idea. Allorché il «nuovo» deve «giustificarsi» non può che «ri-convertirsi » a qualche passato, se non altro per spiegare da che cosa intende «secedere». I plebei romani, nelle loro secessiones, sapevano bene chi fossero i «padri» (i patrizi). Quale figlio, oggi, smanioso di «innovare », conosce i propri padri? Quale pretendente parricida partecipa, oggi, così intimamente come Bruto alla vita del suo Cesare? Ma il padre sopravvive sempre se non lo uccidi in te…Nessuno conosceva storia e ragioni del suo nemico meglio di un Marx o di un Lenin. Il semplice rottamatore finisce invariabilmente sepolto sotto le macerie che la storia, o la fortuna, per conto suo produce.
Perciò gli autentici rivoluzionari hanno spesso teso a far maturare il nuovo regime dall’interno delle forme politichetradizionali. La loro arte è stata in qualche modo maieutica. Il «nuovo» si esprime, allora, come il trapassare del vecchio, non l’affermazione di una prepotente violenza, ma il prodotto dello stesso passato. Il «nuovo» si «giustifica» in quanto nuova dimora in cui le forme dei padri possono finalmente trovare pace. Così i novatores «riformisti» cercano di superare la paura che inevitabilmente suscitano: presentandosi come coloro che parlano e operano sulla base dell’autentico senso del passato. Si possono dare varianti «messianiche» di questa posizione: allora il rivoluzionario non è soltanto chi segna il «trapasso» d’epoca, ma colui che intende riscattare-redimere vittime e ingiustizie della storia o preistoria trascorsa. Egli si sente responsabile nei loro confronti; esse sono per lui presenze vive che è necessario ascoltare e «salvare». In ogni caso, risulta decisivo il rapporto col «tempo di ieri». Dove questa relazione non sia più riconosciuta come essenziale, «rivoluzione» finirà con l’indicare il «naturale» salto tecnologico- organizzativo all’interno dell’ininterrotto progredire del sempre-uguale. Rivoluzione diviene progresso. E le due idee tramontano insieme.
Naturalmente, il quadro è del tutto diverso se riteniamo che le res novae non siano che metamorfosi di «archetipi» necessari ed eterni, oppure, all’opposto,che l’occasione dia davvero la possibilità alla virtù di inventare situazioni e ordini mai sperimentati. La cultura moderna sembra insistere su quest’ultima prospettiva. Ma Machiavelli docet: gli innovatori, i fondatori di «principati nuovi» debbono conoscere bene gli antichi exempla, debbono ben sapere che gli uomini camminano «quasi sempre per le vie battute da altri», che «tutte le cose che sono state» possono ancora essere. Non si dà una pura inventio novitatis. Il nuovo si costruisce con i mattoni della storia — ma trasformandoli e costringendoli in forme mai prima costruite. Né eterno ritorno, né inarrestabile flusso di disordinati mutamenti. Il passato, come gli astri, inclina, non determina.
Ma ogni concepibile innovazione non presuppone forse un «ritorno»? Qualsiasi «salto» è possibile soltanto se un’energia che attingiamo in noi stessi lo fa apparire necessario. Senza una «voce» che costringe a sciogliere le cime e avventurarsi in mare aperto, mai potremmo vincere la paura del «nuovo», la violenza conservatrice della consuetudo. Qui l’idea moderna di rivoluzione manifesta la sua origine teologica. Rivoluzione per eccellenza è la conversio, il ritorno a sé, il faccia a faccia col proprio vero volto, fino a provarne con angoscia tutta la miseria. Da questo tremendo spettacolo l’anima trae la forza per mutarsi tutta. La conversione a sé crea le condizioni imprescindibili per mutare mente e cuore e voler mutare il mondo a nostra immagine. La secolarizzazione di tale idea comporta l’abbandono o l’oblio del fatto che conversio era concepibile solo come gratia, che mai l’uomo da sé avrebbepotuto pervenire alla forza necessaria per mutarsi così radicalmente. Il desiderio di res novae, ha spezzato l’«ordine» che lo collegava a conversio. D’altra parte, questa «deriva» si annuncia fin dal passaggio dalla narrazione della conversione per antonomasia, quella di Paolo, alla «confessione» della propria da parte di Agostino. Un raptus per Paolo; il Signore non si «insinua» nell’anima, ma vi irrompe all’improvviso, la sconvolge insieme al corpo stesso con inaudita violenza. In Agostino, invece, la conversio avanza a fatica, tra esitazioni, dubbi, sospensioni. È la storia di una vera metanoia, e cioè di un mutamento che interessa essenzialmente il nous, la mente; certo, è il Signore che chiama e che vince, ma l’eletto risponde perché riesce a convincersi della verità che gli si manifesta. Tale decisione cattura in sé l’esserci umano nella sua integrità, ma il timbro dominante è quello intellettuale-noetico — timbro del tutto estraneo nel racconto evangelico su Paolo. La idea moderna di rivoluzione lo secolarizza, facendo della decisione il prodotto di una volontà mossa dall’energia del solo intelletto. Rimane forse l’angoscia di fronte alle condizioni del saeculum; ma non si tratta dell’angoscia che mette di fronte a noi stessi, che ci fa sentire responsabili in tutti i sensi e che costringe a cambiar vita. L’innovatore di oggi non prova alcun bisogno di conversione; egli, anzi, è l’innocente, che si erge a modello dell’«ordine nuovo», figura futuri. L’agostiniano abisso del Sé si è forse richiuso per sempre sotto la folle idea di un’indefinita «rivoluzione permanente».
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *