La “messa” è finita

 
Fu “inventato” dal concilio di Trento. Ora rischia di sparire
La messa è finita
Così dopo cinque secoli tramonta la figura del prete
ALBERTO MELLONI
Alcuni grandi cicli storici si chiudono con eventi fragorosi. Altri cicli, invece, si chiudono quasi in sordina, pur non essendo meno importanti di quelli ai quali un monumento o una riga di sussidiario fornisce eterna gloria. In sordina si è esaurito un grande ciclo: quello del prete. Quella formidabile invenzione cinquecentesca che ha plasmato la cultura e la politica, la psicologia e la vita interiore, l’arte e la teologia dell’Occidente e delle sue antiche colonie non si è estinta (sono circa 420mila i preti nel mondo), ma da ol–

tre un secolo è in crisi: in Italia siamo passati in novant’anni da 15mila a circa 2.700 seminaristi. Certo hanno peso alcuni fattori estrinseci: domani il disdoro della pedofilia che nella lente dei media fa apparire quel delitto come specifico del prete; ieri la pigrizia delle autorità nel discutere del celibato ecclesiastico; oggi la simonia soft che remunera regalando episcopati- premio a chi “fabbrica” preti o numerosi o vistosi. Conta in questa fase storica il riverbero sul clero della caduta della qualità intellettuale delle classi dirigenti alle quali appartiene sia chi sceglie il sacerdozio che chi glielo conferisce. Ma la questione si incunea più profondamente nella storia.
Il prete che abbiamo conosciuto ha una data di nascita precisa: il concilio di Trento che si chiuse nel 1563. E l’enorme sforzo con cui esso cercò di segnare una cesura (contestata dai protestanti che invece accusavano la chiesa cattolica di continuità con l’abuso) a valle della riforma di Lutero. Tardi, ma con coraggio il concilio cercò di inventare farmaci sconosciuti: ad esempio impose ai vescovi la residenza in diocesi, impedendo loro di bazzicare la corte papale. E inventò il prete: quello preso in giro dalla letteratura e dal cinema, l’uomo reso saggio solo dagli insuccessi, santificato dalla pesantezza istituzionale di ciò a cui si dà. Il prete che non ha figli da crescere, il prete con un ciclo di studi standard e lunghissimo, il prete che porta i proletari a diventare classe dirigente, il prete che interpreta la “suprema lex salus animarum” che è la misericordia. Questo “prete tridentino” sembra attraversare la svolta della modernità senza danni: anzi la nascita dei nuovi ordini e società di preti dell’Ottocento, e lo zelo nel fare seminari grandi come fabbriche, sembrano garantire che la sua funzione resti intatta dentro lo stesso guscio istituzionale e teologico.
Ma non è vero: la chiesa che si arrocca a difesa del proprio recinto ne fa un funzionario il cui profilo interiore si usura nel controllo sociale. Lo scrutinio della coscienza di una umanità di cui non ha esperienza ne indebolisce la compassione. La sua antica scienza comparata a trasmissioni del sapere sempre più sofisticate, ne fa un sotto-acculturato. Lo zelo ecclesiastico nel condannare tutto ciò a cui si può attaccare il suffisso “ismo”, ne impoverisce le letture e lo rende estraneo ai “suoi”, che diventano di colpo “lontani”. La perdita di ruolo e l’incuria affettiva lo espone al peggio: fino alla svenevole esaltazione del celibato che intrappola le sessualità in cerca di sublimazione e attira nel presbiterato persone irrisolte o addirittura malate. La sua qualifica diventa il nome di un vizio mai combattuto abbastanza: il clericalismo. E nella storia europea recente il mestiere di prete viene appaltato, come le mansioni marginali, a chierici d’importazione, eletti a badanti di comunità abbandonate. Perfino la discussione sulla donna-prete (dimenticando che il “sacerdozio” che si riceve col battesimo le donne lo hanno già, e che non è poco) si mescola pericolosamente alla logica tutta maschilista che concede all’altro genere i mestieri diventati obsoleti.
Il calo quantitativo delle ordinazioni disegna da due secoli una curva calante davanti al quale si chiudono gli occhi, specie quelli che stanno sotto una mitria episcopale. Ci sarebbe infatti bisogno e perfino urgenza di ripensare il prete partendo proprio dall’eucarestia e dalla comunità, e non da dettagli di vita o di genere. Ma di questo, però, sembra impossibile parlare, anche nell’ultimo mezzo secolo.
Non ne ha parlato il Vaticano II che si è limitato a tentare di togliere al prete quel tono semi- monastico che aveva. Non il papato che si limita a confezionare una poetica del prete. Non ne parlano i vescovi che impacchettano le comunità in quelle che in Italia si chiamano “unità pastorali”, e condannano i preti a diventare funzionari affannati, travolti da una poligamia comunitaria in cui nessuno vuol loro bene e loro non riescono a voler bene, col rischio di diventare santi o naufragare su scogli erotici non sempre candidi.
È cosa così grave che non ne parla neanche papa Francesco. Il prossimo sinodo, infatti, ha un tema general-generico come quello dei “giovani”: quasi che perfino l’infaticabile papa riformatore avesse voluto cercare una pausa alle polemiche. E se l’enciclica prossima come si dice sarà sulla religiosità “popolare” avrà anch’essa lo stesso limite. D’altronde la decisione più significativa del pontificato, quella contenuta in Evangelii Gaudium, non è stata ancora recepita dai vescovi: è quella che afferma che le conferenze episcopali hanno «autentica autorità dottrinale ». Toccherebbe dunque ai vescovi episcopati sollevare un tema sul quale si gioca la vita delle loro chiese: ma l’indolenza prevale, incoraggiata dalla speranza che la riforma domani abbia lo stesso coraggio di quella che “inventò il prete”. Figura che mentre svapora accende i ricordi e i rimpianti di credenti, ex credenti e non credenti.
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Tra burocrazia e solitudine
 
 
 

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