Il senso del cantare

Se l’anima scala la hit parade
VINICIO CAPOSSELA
Si canta per farsi coraggio, e il coraggio ha a che fare con la fede. L’esperienza del dolore, il lamento, l’esperienza della gioia… La canzone, come la religione, si occupa dell’uomo, di tutte le sue facce. Si occupa dell’intero spettro di questa esperienza vasta e contraddittoria, unitaria e frammentaria che è la vita. Citando il Qohelet o Ecclesiaste “c’è un tempo per ogni cosa sotto il sole”, così la musica, la canzone, si accende di una grande varietà di stati d’animo e spesso si occupa di ciò che trascende la vita, pure quando questa è fatta di materia, di sforzo e di sudore.

 

Il canto distilla la cosa che trascende l’esperienza, che l’attraversa e, come il gas, tende a salire in alto. È inevitabile che si impregni di tutti quegli effluvi che l’esperienza umana esala. Come in un unico vapore si confonde con i temi della religione, della spiritualità. È materia che riguarda l’uomo, il rapporto che l’uomo ha con il “più grande di sé”, il fuorimisura. Il piccolo, finito uomo, che si confronta con l’infinito smisurato che lo comprende, ma che non comprende. Forse bisogna avere la percezione del mondo ancora prima che quella di Dio (ed è quella che si sta smarrendo), o forse sono la stessa cosa, questo rivolgersi fuori, percepire l’altro da sé. Certo è che la musica, la canzone, è già qualcosa che cerca di uscire da sé, che è proiettata verso l’altro, e per questo può assumere talvolta i toni della profezia, della divinazione, della visionarietà, del lamento, della rapsodia, della memoria collettiva degli aedi.
Si canta per darsi forza. Leviamo un canto a Dio, è stato da sempre. Il salmo va cantato, così come le gesta epiche e non si sa se è il canto che si leva a Dio, o se è Dio che entra nella innata vocazione a cantare dell’uomo, Adam… humus… terra. Nella tradizione blues, nel gospel, negli inni, negli spiritual, la Bibbia è come un enorme compagno di viaggio tascabile, qualcosa che ci si porta dietro come una marmitta col rancio caldo, per rifocillarsi quando la fatica fiacca le membra. In alcune musiche si mira all’estasi, all’uscire da sé, in altre a rientrarci. Sempre la preghiera è un modo per tenere in vita il contatto con l’anima, a volte lo sono anche le buone canzoni. Andiamo a cercare in esse un effimero più sublime che è la ricerca di Dio, la sua traccia fatta verbo nella verbosità degli autori. Certamente le mitologie codificate nelle scritture, le scritture, la forza del loro linguaggio, le simbologie, la storia stessa dell’uomo, sono di una potenza che, a prescindere dalla fede, nessun ateo dovrebbe perdersi.
Questo sì che è un peccato mortale. Un uomo di fede troverà interessante analizzare come i suoi grandi temi vengono affrontati, scalati, con diverso bagaglio di spiritualità, dalla piccozza di questi piccoli, audaci, spocchiosi, umanissimi scrittori di canzoni. C’è qualcosa di patetico ed eroico nell’uomo, nel suo vivere sapendo di morire, nell’attraversamento del dolore, della malattia, della separazione, e anche nel suo inventarsi Dio, sostituirsi a Dio, consegnarsi a Dio. Muove un senso di solidarietà vedere il suo brancolare, il suo sforzo nel portarsi addosso il basto irrisolto della spiritualità, e dei temi più antropologici della colpa, del peccato, della tentazione. E quelli più ancestrali ancora del desiderio, del sacrificio, della morte. È una cosa che stimola anche il lettore a gettarvi uno sguardo in oggetti di uso comune come le canzoni, rapportate ai costumi dei loro anni. Le canzoni sono sempre un po’ profanazioni, restituiscono all’uso la materia del sacro.
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